Candyman: un riflesso inquietante e vicino del nostro mondo [RECENSIONE]
Devo ammettere che prima dell’annuncio del film di cui parleremo oggi non avevo mai sentito parlare del Candyman originale del 1992, con Tony Todd nei panni del celebre personaggio. E ancora oggi non sono riuscito a vederlo a causa di una reperibilità non proprio dalla mia parte. Tuttavia, non mi sono voluto far scappare il Candyman di Nia DaCosta, co-scritto col grande Jordan Peele (uno dei migliori registi horror contemporanei).
Dunque, facciamoci questo battesimo di miele e sangue.
Quello che salta subito all’occhio, dopo i primi minuti, è la natura un po’ clichèttosa della pellicola: lo spirito tormentato che uccide chiunque nomini il suo nome per cinque volte allo specchio è un qualcosa che abbiamo visto e rivisto, non solo al cinema. Anche i personaggi, le relazioni tra essi e determinate sequenze sanno di un qualcosa che conosciamo fin troppo, eppure DaCosta non si è arresa a questa natura della sceneggiatura.
La regista statunitense riesce a sfruttare la natura del personaggio di Candyman (in particolare quella di esistere solo dentro gli specchi) per costruire sequenze che giocano con la dimensione dello spazio, costruendo tensione sfruttando, paradossalmente, il fatto che in certi momenti sappiamo già cosa sarebbe successo. Tensione che sfocia in orrore con una tendenza per il body horror (con qualche strizzata d’occhio al buon Cronenberg).
Il sangue non manca, e nemmeno il buon gusto nel saperlo mettere a schermo senza stuccare, ma è soprattutto la natura del personaggio di Candyman che riesce a suscitare nello spettatore quella perenne suspense che ci può ricordare grandi pellicole del genere come It Follows o, osando un po’, Halloween del sommo John Carpenter.
Candyman non è un mostro rumoroso che appare all’improvviso (anche se spesso il film poteva giocare molto di più col silenzio e con un tocco musicale più minimalista), ma è un’ombra che ti segue costantemente, che si nasconde dietro e dentro di te, che vedi in ogni tuo riflesso allo specchio. Tutti elementi che DaCosta pone sul tavolo, li osserva, e li sfrutta al meglio giocando con una regia che mischia le carte in tavola in termini di percezione dello spazio.
Da menzionare assolutamente i titoli di testa, dove le riprese dei grattacieli di Chicago a testa in giù li fanno sembrare delle torri d’argento arrivate da un mondo aldilà della nostra percezione, separato dal nostro da una spessa coltre di nebbia. La musica, composta da Robert Aiki Aubrey Lowe, aggiunge quel tocco onirico / ipnotico che valorizza la sequenza rendendola una delle migliori d’apertura che abbia visto al cinema negli ultimi cinque anni.
Il fulcro del film, però, è altro.

Quello che DaCosta fa, insieme a Peele e al terzo sceneggiatore Win Rosenfeld, è sfruttare il personaggio di Candyman, e dunque il genere horror stesso, per veicolare un forte messaggio sociale / politico riguardante la violenza di natura razzista perpetrata dalla polizia statunitense verso la comunità afroamericana.
Direi un classico, no? Soprattutto in un periodo “post-George Floyd”. Infatti, non sono rimasto stupito dalla presenza di una tematica simile, ma sono rimasto stupito dal fatto che è stata inserita e trattata con gusto e senza retorica, evitando così di appesantire il film.
L’idea di rendere Candyman una vera e propria manifestazione maligna di questo razzismo radicato nelle fondamenta della società americana funziona e colpisce, soprattutto nel climax del film dove viene rappresentata l’idea del razzismo da parte della polizia con delle ottime idee di regia e fotografia.
Questo è uno dei pregi più importanti del film; ad oggi stiamo vivendo una sorta di wave di nuovo cinema nero contemporaneo con protagonisti registi come lo stesso Jordan Peele, Ryan Coogler, Spike Lee (che, in realtà, è sempre stato protagonista assoluto), Regina King, insieme ad attori come Daniel Kaluuya, il compianto Chadwick Boseman, Lakeith Stanfield, Lupita Nyong’o, Jonathan Majors, Letitia Wright e tanti altri. Purtroppo, però, è un wave che troppo spesso vuole trattare delle tematiche circondanti la comunità afroamericana con retorica e poca audacia, e senza rifarsi a quella che è la vera cultura cinematografica della comunità afroamericana (come il cinema della blaxploitation). Candyman, invece, insieme a film come Get Out e BlacKKKlansman, fa centro.
Ma osserviamo ora l’altra faccia della medaglia.
La volontà del film di voler raccontare questa tematica, in questo modo, comporta anche il suo peggior difetto.
DaCosta, infatti, impone, in modo anche piuttosto didascalico, di vedere il film in quella singola chiave di lettura, senza lasciare allo spettatore alcuna libertà interpretativa. Il che è molto triste se consideriamo che nel film stesso abbiamo il protagonista alle prese con un’opera d’arte che viene criticata dalla compagna proprio per questa mancanza di libertà d’interpretazione.
Forse il film è consapevole di questo suo problema?
Inoltre, la presenza della tematica sociale sembra quasi stridere con la componente più sui generis della storia, soprattutto per la parte legata al personaggio di William Burke, interpretato da Colman Domingo, portando la sceneggiatura ad evolversi in modo un po’ farraginoso.
Va anche detto che ho visto il film una sola volta, e senza aver ancora visto l’originale del 1992, e sono sicuro che ad una seconda, terza visione, della pellicola potrei vedere uno schema ben più chiaro e delineato nella sceneggiatura del film (ancora da capire, per esempio, il misterioso passato del personaggio interpretato da Teyonah Parris).
Tuttavia, Candyman di Nia DaCosta è un buonissimo film, con delle solide intenzioni narrative messe in scena con gran classe dalla regista newyorkese (tecnicamente, infatti, non si può dire nulla sul film). Abbiamo di fronte un horror di stampo carpenteriano che sfrutta il mezzo cinematografico per giocare con l’immagine, gli attori e tutto lo spazio inquadrato portando lo spettatore in un mondo di specchi, i cui riflessi ci mostrano il nostro mondo attraverso una prospettiva distorta e inquietante, ma spaventosamente vicina alla nostra realtà.