Death Stranding: opinioni sul videogioco più importante degli ultimi anni

No, quest’articolo / post non dovrei farlo. Perché sì, gioco da quando son piccino e ho alle spalle anni e anni di video giocate sfrenate. Però non ho mai toccato cult come Crash Bandicoot, oppure i primi Pokémon come Rosso o Blu, e visto, l’autore di cui voglio parlare oggi, non ho (ancora) sfiorato la saga di Metal Gear Solid.

Eppure sono qui a parlare di uno dei titoli più attesi e discussi degli ultimi anni: Death Stranding. Gesù, fa effetto pensare di aver giocato a questo titolo e averlo finito dopo anni di trailer, news e rumor riportati su questo sito.

Ovviamente l’ironia e l’inutilità di quest’articolo è resa ancor più forte dal fatto che sto parlando ora di questo titolo, quando è uscito a novembre e tutti hanno già avuto modo di dire la propria e di aprire grandi aree di discussione.

E quindi per quale stra fottutissimo motivo sto scrivendo di un gioco così importante senza avere le competenze (vista la mancanza di esperienze prima elencate) e con così tanto ritardo?

Beh, vedete questo articolo / post come una sorta di stream of consciousness, una pura esposizione delle emozioni e delle sensazioni che questo titolo mi ha trasmesso senza andare a intaccare l’area tecnica che di certo non mi compete (per quello c’è gente trenta volte più esperta di me), sperando di poter dar vita ad un’area di discussione alquanto accesa.

Ecco, ora da dove iniziare? Dalla fine? Dalla fine.

Death Stranding mi ha semplicemente distrutto. Distrutto perché nessun gioco mi aveva fatto calare così tanto in un mondo e fatto immedesimare con il protagonista, e legare con tutti gli altri personaggi, nonostante ci fosse al centro una storia ben precisa da raccontare e in un modo altrettanto preciso. Perché il gioco è open world e tutto quanto, ma il caro Hideo Kojima porta al gioco un approccio incredibilmente cinematografico che ti porta ad avere l’illusione del libero arbitrio, della scelta, per poi mandarti in un’unica direzione. Eppure, si riesce ad essere il protagonista in tutto e per tutto.

Death Stranding mi ha scosso nel profondo attraverso la storia, veicolata da una vera e propria regia messa in gioco da Kojima non solo nelle cutscenes, ma soprattutto (questa giuro è l’unica volta che tocco la tecnica del gioco) delle meccaniche di gameplay che rendono il tutto così realistico e così immersivo. Arrivi a percepire fisicamente la stanchezza che prova il nostro protagonista, Sam Porter Bridges, quando attraversa un fiume o quando trasporta cento chili di roba sul groppone. Senti un dolorino ogni qual volta che cade o va a sbattere contro una roccia. Senti il dolore e la gioia quando succede qualcosa di brutto o bello al tuo BB.

Tutto questo attraverso un perfetto connubio tra cinema e videogioco, tra perfezione tecnica e perfezione narrativa.

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Kojima con Death Stranding vuole parlare di connessione, e riesce talmente tanto bene nel suo intento che instaura un collegamento emotivo meta-videoludico tra protagonista e giocatore come mai nessuno era stato in grado di fare.

Un messaggio incredibilmente potente necessario oggigiorno, con presidenti che costruiscono ponti e chiudono i porti, e ancor più importante proprio ORA che ci troviamo gli uni isolati dagli altri a causa di un essere invisibile.

Forse questa riflessione sul gioco non è arrivata in ritardo, ma proprio al momento giusto. Come uno stregone.

Kojima vuole ricordarci quanto sia importante per noi esseri umani vivere in una società che ci permetta di stabilire in modo sano relazioni, amicizie, amori e rivalità, senza le quali saremmo misere creature arenate che vagano su una spiaggia grigia senza fine. Un gioco che con un paio di mesi di anticipo ci sta dicendo di resistere di fronte a questa emergenza per poter godere del mondo in cui viviamo, e delle persone che ci stanno vicino, come mai abbiamo fatto e come avremmo sempre dovuto fare.

E forse è proprio qui che sta il fulcro vero di Death Stranding: l’evoluzione. Perché di questo stiamo parlando: nel mondo creato da Hideo Kojima l’umanità tutta si ritrova in una situazione drammatica a dir poco, grazie alla quale sono comunque riusciti ad acquisire abilità come il teletrasporto, la capacità di fabbricare oggetti praticamente dal nulla, sono addirittura riusciti a capire che dopo la morte c’è qualcosa ed anche a comprendere, anche se non del tutto, quello che effettivamente c’è dopo la morte.

L’uomo sta estinguersi eppure ecco che, facendo felice un certo Charles Darwin, compie l’estremo sforzo di evolversi di fronte a una situazione del genere superando la fase dell’Homo Sapiens Sapiens e divenendo qualcos’altro (magari l’Homo Doomens o l’Homo Lumens ideato da Kojima?).

Noi siamo nella stessa situazione. Fatto fronte a questo periodo storico, o comunque a qualsiasi altra situazione drammatica della nostra vita, l’uomo non può che elevarsi e divenire un qualcosa di superiore. Anche in gesti piccoli come apprezzare veramente un’amicizia. Un legame con un’altra persona. Una connessione.

Questo è Death Stranding per me ed è questo che mi ha trasmesso insieme a una valanga di emozioni che pochi titoli mi hanno fatto provare. E ovviamente, quanto detto fino ad ora non è manco la metà egli spunti di riflessione che questo immenso titolo mi ha stimolato. Ma se dovessimo metterci a sviscerare un titolo come questo in un articolo unico, beh, probabilmente finiremo dopo l’uscita di Winds of Winter.

Detto ciò io vi saluto perché altro non ho da dire, e passo la palla a voi, sperando di potermi connettere con alcuni di voi e poter vedere il vostro punto di vista su questo gioco, sulla sua storia e sui suoi personaggi.

P.S.: Faccio l’arrogante ignorante senza esperienza? Ok lo faccio: Death Stranding è un capolavoro.

L’ho detto.

Fine.

Andrea D'Eredità

Andrea D'Eredità

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