I migliori blockbuster del 2021

Dopo un anno di pausa, eccoci tornati con uno di quegli articoli tanto inutili quanto divertenti da scrivere e leggere: una classifica. Le classifiche lasciano sempre il tempo che trovano, visto che si tratta sempre di un qualcosa di incredibilmente soggettivo e personale, ma ho sempre trovato che siano un ottimo spunto per dar vita a discussioni stimolanti tra appassionati di cinema.

In particolare, qui su Cinespression.it abbiamo sempre portato la classifica dei migliori blockbuster dell’anno, appuntamento che, però, l’anno scorso saltò per ovvi motivi. Dunque, cerchiamo di rifarci del tempo e dei film perduti l’anno scorso.

Ricordo che verranno considerati solo i grandi blockbuster usciti al cinema nel corso dell’anno (per i film in generale, magari, faremo qualcosa a parte sulle nostre pagine social). In particolare, questi sono i tre requisiti che un film deve soddisfare per poter essere considerato nella classifica:

  1. Deve aver incassato almeno 100 milioni di dollari in tutto il mondo.
  2. Deve esser uscito nelle sale italiane nel lasso di tempo che va dal 1° gennaio 2021 fino al 31 dicembre 2021 (film distribuiti esclusivamente su piattaforme streaming non verranno pertanto contati).
  3. Deve essermi piaciuto almeno un minimo. La classifica andrà, infatti, da quello che ho gradito meno a quello che invece ho amato in tutto e per tutto. Quindi, se non troverete un dato film in questa classifica o non mi è piaciuto, oppure non sono riuscito a vederlo in sala.

Detto ciò, iniziamo col primo film!

 

No time to die, di Cary Joji Fukunaga

Rinviato più e più volte, finalmente la saga sul James Bond interpretato da Daniel Craig è giunta al termine. Purtroppo, per quanto No time to die funzioni come film d’azione, non risulta essere il grande film / conclusione che speravamo. Va detto che, come dissi in un precedente articolo dedicato a questa meravigliosa versione del personaggio, già Spectre mostrava quanto il personaggio di 007 avesse ormai poco da raccontare, e con questo quinto film sentiamo ancor di più la sensazione che le storie con protagonista l’agente segreto più famoso del mondo vengano allungate come il poco burro spalmato su troppo pane. Un film meraviglioso dal punto di vista tecnico, con un Fukunaga scatenato dietro la macchina da presa nelle scene d’azione, una meravigliosa crepuscolare fotografia e una colonna sonora elegante e fragorosa ad opera di un Hans Zimmer che reinventa i celebri temi del personaggio come solo lui sa fare, mischiandole con la straordinaria canzone di Billie Eilish.

Tuttavia, il film abbandona completamente il tono cinico e spietato che ha caratterizzato questa saga sacrificando una più complessa esplorazione dei personaggi a favore di un tono più pop, dove effetti speciali, gadget e set pieces che poco hanno avuto a che fare con i film precedenti, i quali, anzi, li decostruivano e criticavano, dominano costantemente lo schermo. Quello che quindi otteniamo è sì uno scialbo e incoerente epilogo, ma comunque un buon film d’azione reso tale da un Fukunaga, un cast e un comparto tecnico in gran forma. Peccato per una sceneggiatura poco coraggiosa che ci regala un finale che non vale nemmeno un’unghia anche solo del prologo di Casino Royale.

 

Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli, di Destin Daniel Cretton

Potrei iniziare e finire questa mini-recensione dicendo che i Marvel Studios hanno fatto il loro classico compitino, ma mi sforzerò e cercherò di andare oltre. Shang-Chi è un film che gode di una regia molto ispirata, con dei meravigliosi long take e delle trovate registiche veramente interessanti che, ammetto, non pensavo di poter trovare. Il film gode di un grande gusto verso la spettacolarizzazione dell’azione, e per i primi due atti anche di una certa eleganza nella sceneggiatura; viene costruito un interessante legame tra il protagonista (interpretato da un Simu Liu senza infamia e senza lode) e il cattivo di turno (che di certo risulta un minimo memorabile per l’essere interpretato da un gigante come Tony Leung), che però viene completamente sacrificato nel terzo atto della pellicola. Un legame che avrebbe potuto rendere lo scontro finale molto più teso ed emotivamente coinvolgente, ma è stata intrapresa una strada dove a farla da padrone sono, ancora una volta, gli effetti speciali. Uno scontro finale che è spettacolare, divertente, anche ben girato, ma poco lascia nello spettatore se non la sensazione di aver rivisto l’ennesimo “compitino” firmato Marvel Studios. Un buon compitino, ma l’ennesimo compitino.

 

Spider-Man: No way home, di Jon Watts

Sarà che avevo aspettative veramente basse basse, soprattutto dopo quell’insulto al buon gusto che è Far from home, ma questo No way home mi è inaspettatamente piaciuto. I Marvel Studios hanno deciso di prendere dal mazzo non le carte migliori, ma quelle che avevano se le sono sapute giocare veramente bene. Il fan service c’è e a tonnellate, ma è un fan service con un ruolo all’interno della narrazione e dell’evoluzione del personaggio di Peter Parker. Un’evoluzione che colpisce, compiendo delle scelte anche alquanto coraggiose, soprattutto nel finale dove sembra quasi avere inizio solamente ora (paradossalmente col terzo film) la vera storia dell’Uomo Ragno del MCU, come se questa trilogia fosse stata semplicemente un prologo preparatorio per il personaggio. Un prologo con pochi alti e molti bassi, ma con un finale colossale ed emozionante, nonostante una sceneggiatura molto spesso pigra e con passaggi, dialoghi ed espedienti narrativi piuttosto imbarazzanti. Per non parlare del fatto che, ancora una volta, siamo di fronte ad un film senza la benché minima impronta autoriale, nonostante Watts a questo giro abbia tirato fuori delle idee registiche veramente d’impatto e spettacolari (meraviglioso il piano-sequenza a inizio film, così come il long take con dolly zoom nell’attico). L’uso della CGI sembra quasi ossessivo / paranoico, che plastifica l’immagine insieme ad una fotografia, ancora una volta, eccessivamente patinata. Nonostante ciò, No way home è un film che ha cuore, che si avvicina molto a quella che è l’essenza di uno dei supereroi Marvel più complessi ed affascinanti di sempre e che sembra promettere un futuro intrigante a dir poco per questa versione del personaggio della quale, prima di questo film, non mi interessava per niente.

 

Halloween Kills, di David Gordon Green

Dopo il meraviglioso Halloween di tre anni fa, Michael Myers ritorna ad Haddonfield per continuare la sua storia. Purtroppo, è un film meno accattivante rispetto al predecessore, con una sceneggiatura che punta fin troppo alla strizzata d’occhio verso il fan di vecchia data, sia dal punto di vista tecnico che narrativo, e presentando molto spesso scene dove la violenza irrompe senza alcun motivo, ma solo per il semplice e volgare gusto di vedere un po’ di sano sangue a schermo. Nonostante ciò, Green è sempre in forma come regista, Carpenter alla colonna sonora è sempre un gran piacere da sentire (nonostante un fin troppo ampio uso delle musiche già usate nel capolavoro assoluto del ’78), ma quello che più colpisce del film è il suo essersi focalizzato sulla reazione che la cittadina di Haddonfield ha nei confronti di Myers e delle sue azioni. Tutto il film punta su questi americani della middle-class operaia pronti a imbracciare pistole e forconi per dar inizio all’ennesima caccia alle streghe a suon di slogan non troppo diversi da “make America great again” o “l’Italia a agli italiani”. Si intravede un’intenzione narrativa politica / sociale molto intrigante e ben sviluppata, grazie ad un Green che, seppur si tratti di un semplice mestierante lontano anni luce dalla maestria di un Maestro come John Carpenter, ben coglie l’essenza del personaggio di Michael Myers.

 

A Quiet Place – Parte II, di John Krasinski

Dopo un primo film davvero sensazionale, Krasinski torna dietro la macchina da presa regalandoci un’altra pellicola horror degna di essere gustata sul grande schermo. Vi è un’eccellente costruzione della tensione, ponendo spesso i mostri in secondo piano, sullo sfondo, e giocando ancora una volta, ma senza mai ripetersi o risultare noioso, con il montaggio sonoro. Quello che più lascia un attimo interdetti è l’intenzione del film: il primo poneva alla base di tutto una riflessione su quello che dovrebbe essere il ruolo del genitore verso il figlio, ma a questo giro? Qual è il cuore della storia? Personalmente, tenendo conto del fatto che ci si concentra molto sul personaggio interpretato da Millicent Simmonds, credo che a questo giro si rifletta su quello che dovrebbe essere il ruolo del figlio nei confronti del genitore. Di come il figlio si senta in debito verso il padre e la madre e di come cerchi di ripagare questo debito anche commettendo errori, sbagliando e probabilmente anche peggiorando la situazione. Ma il peso che grava sui giovani protagonisti della pellicola li spinge a dover cercare di essere migliori, a costo di mettere a repentaglio la propria vita prima ancora di uscire di casa.

Un film inferiore al predecessore? Sì, ma sicuramente un buonissimo film con una sceneggiatura solida nella sostanza, molto meno nella forma, coadiuvata da un Krasinski regista che ha piena coscienza di come si costruisce la tensione e l’orrore senza dover ricorrere a formule a buon mercato (nonostante qualche jump scare di troppo), grazie anche ad un montaggio spesso di grande impatto.

 

Raya e l’ultimo drago, di Don Hall, Carlos López Estrada, Paul Briggs e John Ripa

Se la Disney barcolla sempre tanto quando si cimenta in produzioni live-action, d’altra parte risulta (quasi) sempre trionfante quando si parla d’animazione. Raya è un film d’avventura molto classico nella sostanza, ma reso comunque sensazionale e coinvolgente grazie ad una regia energica ed ispirata. Già solo la scena d’apertura simil Mad Max basterebbe per far capire la meraviglia provata per tutto il film. Film che punta tantissimo sulla costruzione di un mondo che mixa tantissime culture per creare scenografie e set pieces visivamente spettacolari da godersi assolutamente sul grande schermo, ma senza tralasciare un accurato sviluppo della sceneggiatura riuscendo a far convivere umorismo, per far piacere ai più piccini, con il dramma, per colpire i più grandicelli. Peccato per alcune trovate nel finale fin troppo “leggere” e poco ispirate, ma quello che ci troviamo alla fine per le mani è un ottimo film che riprende il classico ma senza risultare stantio.

 

Eternals, di Chloé Zhao

Parliamoci chiaro e senza troppi giri di parole: si tratta del miglior film dei Marvel Studios dai tempi di Guardiani della Galassia Vol. 2. Drammatico, epico, sincero, Eternals è un’epopea che si cimenta in un approccio al genere supereroistico tentato e fallito da molti. Ovviamente solo una talentuosa regista come Chloé Zhao poteva riuscire nell’impresa, scontrandosi con il gigantesco mondo dei grandi produttori e uscendone vincitrice. Un po’ come i nostri protagonisti, che si ritrovano a dover fronteggiare esseri che vanno aldilà di ogni essere vivente nell’universo. Perché nonostante si parli di un franchise che quasi sempre ha soffocato l’autorialità dei propri registi (anche se molto spesso questi stessi registi sono privi di una sensibilità autoriale) a questo giro siamo di fronte ad un film che ha la stessa fotografia che ritroviamo in un Nomadland o in un The Rider, con lo stesso montaggio, le stesse scelte registiche. Purtroppo, il film soffre di alcuni gravi problemi di sceneggiatura, come scene eccessivamente prolisse e una pessima gestione di alcuni personaggi all’interno dello sviluppo della trama. Ciò nonostante, quello che si trova in Eternals non lo si trova praticamente mai in un film con una così grande produzione: tanti personaggi tutti ben caratterizzati nonostante si tratti della loro prima comparsa nel franchise, con ognuno di essi che deve affrontare dei drammi interiori che si riverseranno all’esterno proprio nel terzo atto. Come se la minaccia che devono affrontare non fosse nient’altro che un pretesto voluto dalla Zhao per poter parlare di queste tematiche.

 

The Suicide Squad, di James Gunn

Hai un film con protagonista un gruppo di supercattivi sfigatissimi, dimenticati da Dio e dall’uomo, e lo dai in mano a James Gunn lasciandogli carta bianca. Il risultato? Ovviamente un gran film. Un raro caso di film che, in mezzo alla marasma di cinefumetti che devono a tutti i costi essere tasselli di un universo condiviso più grande, riesce ad essere semplicemente una pellicola che vuole raccontare una storia. Non importa quanto accaduto nel tremendo a dir poco film di David Ayer, quello che importa è ciò che Gunn vuole raccontare qui e ora con questo film, con questi personaggi, esprimendo tutto se stesso senza risparmiarsi.

A questo giro abbiamo un Gunn più scatenato che mai; la violenza dilaga a schermo turbando e divertendo lo spettatore, così come un umorismo sadico e infantile che si confà perfettamente ai personaggi protagonisti del film. Personaggi che Gunn esplora a tutto tondo addentrandosi nei loro drammi personali, nel loro sporco passato e portando tutto a schermo in modo dissacrante ma anche molto umano, attraverso una regia che non usa mai un’inquadratura di troppo, mai un movimento di macchina che possa passare per virtuosismo, ma anzi dando tutto quello che i personaggi e la storia possono offrire senza mai eccedere. Certo, non parliamo di un regista che si trattiene in quanto violenza e gag (che comunque non risultano mai fuori luogo e sempre messe in scena con grande eleganza), ma quello che voglio dire è che Gunn sa che può bastare un’inquadratura per rendere a schermo il dramma di uno squalo antropomorfo, così come basta una battuta per rendere una stella marina aliena gigante uno dei cattivi più drammatici mai visti in un film di supereroi.

Ancora una volta, grandissimo James Gunn per dimostrare che il cinema di supereroi può essere molto di più di quello che costantemente ci viene offerto.

 

Dune, di Denis Villeneuve

Non parliamo solo del blockbuster dell’anno, ma anche di uno dei film più belli di questo 2021. Villeneuve non si smentisce e realizza un kolossal degno di esser definito tale. La potenza del racconto e della mitologia creata da Frank Herbert si sposano perfettamente con la fredda e monolitica estetica del regista canadese, che quasi disorientano quello spettatore che, forse, si aspettava qualcosa di molto più caloroso e accessibile. Dune non è questo, perché questo non è il cinema di Villeneuve. Il cinema di Villeneuve è lontano e indecifrabile come un grigio muro di cemento armato che si staglia, immobile e silenzioso, di fronte a noi, esattamente come i personaggi protagonisti del film. Monoliti che ci appaiono più come rappresentazioni di archetipi narrativi che veri e propri esseri viventi, dando al film un’aurea teatrale ed epica tutta da godere sul grande schermo.

Inutile parlare della tecnica, semplicemente perfetta sotto ogni punto di vista, ma non è mai banale sottolineare la grandezza di un regista nel come sfrutta tale tecnica. Un uso dei movimenti di macchina, dell’inquadratura, che insieme al montaggio e alla musica (composta da uno dei migliori Hans Zimmer degli ultimi anni) enfatizzano, come solo il cinema sa fare, un racconto classico a dir poco, con al centro l’ormai sdoganato “viaggio dell’eroe” (da tener conto che parliamo anche di una storia nata negli anni ’60). Ma ancora una volta, come nel miglior cinema, non è mai la storia a fare il film, bensì il regista. È Villeneuve a fare il film, è il suo punto di vista, la sua unica visione della storia, la sua impronta autoriale che si manifesta in ogni fotogramma dell’opera. D’altronde, non è troppo diverso lo spaesamento provato dal giovane Paul Atreides, causato dalle continue visioni del futuro, da quello provato da Amy Adams in Arrival o da Ryan Gosling in Blade Runner 2049. Non sono nemmeno troppo diversi la confusione e il peso che Paul prova nel dover affrontare una sfida così grande, tra astronavi titaniche e dinastie millenarie, rispetto a quelli di Emily Blunt in Sicario, una naif agente della DEA catapultata in una guerra spietata più di quanto poteva immaginare.

Insomma, Dune è grande fantascienza, ma è soprattutto grande cinema. Quel cinema dove un autore completo riesce ad esprimersi liberamente attraverso la grandezza del linguaggio della Settima Arte. Dune è uno di quei film che ricorda il perché è bello alzare il culo dal divano e andare in una sala buia a vedersi un film in mezzo ad altri duecento sconosciuti.

Andrea D'Eredità

Andrea D'Eredità

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