Il Signore degli Anelli: lettera d’amore alla Terra di Mezzo [RECENSIONE]

Note pre-lettura: le riflessioni e l’analisi dei film del Signore degli Anelli sono fatte pensando ai film solo come film in sé e non tanto come trasposizioni di un qualcosa, dato che non ho ancora avuto modo di leggere il libro (cosa alla quale sto rimediando!). Inoltre, si parlerà dei film liberamente e facendo spoiler. Siete avvisati.

 

Non ricordo bene come entrai in contatto per la prima volta con la trilogia de Il Signore degli Anelli. Molto probabilmente fu quando avevo circa sette anni e un mio amico mi parlò di questa incredibile avventura con elfi, spettri, draghi e demoni di fuoco grossi come palazzi. Probabilmente in una sera di un’estate di circa quindici anni fa ci riunimmo con degli amici per vedere su un televisore di manco 20 pollici La Compagnia dell’Anello, che per quasi tre ore mi fece provare una scarica elettrica per tutto il corpo.

Figuriamoci se all’epoca io capì cosa fosse quella scarica e cosa significasse per me (ci ho messo appunto quindici anni per scoprirlo) ma sapevo che quello che avevo visto, senza usare aulici termini tanto apprezzati da chi parla di cinema sul web, era una cazzo di meraviglia.

Mi divertiva, mi affascinava, mi faceva commuovere, e soprattutto mi faceva cagare addosso con i vari orchi e goblin. Penso che tra le urla dei Nazgul e il primissimo piano del goblin nelle miniere di Moria siano due delle cose che più mi hanno spaventato da ragazzino.

Per me, però, all’epoca Il Signore degli Anelli finì lì, finché poi un giorno mio padre tornò a casa e dietro dalla sua schiena tirò fuori un DVD con il seguente titolo: Il Signore degli Anelli – Le Due Torri. La mia reazione al film? Esattamente quella che ebbi col predecessore, ma tipo il triplo più forte. Poi venne il turno del gran finale, de Il Ritorno del Re. La mia reazione? Probabilmente se dovessi descrivere le sensazioni che provai (e che provo tutt’ora) nel vedere quel film ad un dottore quest’ultimo direbbe che stavo per avere un infarto lancinante da far spaccare il cuore in due.

Dopo quindici anni, la situazione non è di certo cambiata, anzi, la si può anche definire “peggiorata”. Perché sono sempre stato un grandissimo adoratore della trilogia di Peter Jackson, ma quando l’ho rivista nella primavera di quest’anno per la millesima volta qualcosa è scattato con lo stesso fragore con cui scattò quindici anni fa.

Certo, in quindici anni, lo saprete benissimo anche voi, cambiano una quantità di cose che solo a pensarci viene da starsene seduti a riflettere per un mese. Soprattutto in ambito cinematografico; come poteva pensare il me stesso di quindici anni fa che sarei finito a studiare quello che si nasconde dietro ad un’inquadratura? Per non parlare del fatto che sono finito a farlo lontano da casa!

Ad ogni modo, la trilogia de Il Signore degli Anelli si è rimanifestata nel mio cuore in modo inaspettato. E poi venne l’annuncio del ritorno dei film al cinema. E poi ancora l’annuncio che sarebbero stati rimandati, restaurati in 4K (ma davvero c’è bisogno di restaurare o rimasterizzare delle opere simili?) al cinema Arcadia, nella Sala Energia (se non sapete di cosa sto parlando andate su Google e scoprite quali meraviglie si nascondono in Italia). A quel punto il danno era fatto (anche se non sono riuscito a vedere Il Ritorno del Re in quella sala, cazzo).

E quindi ora eccomi qui, con una vagonata di cose da dire e voglia di condividerle con voi circa la trilogia de Il Signore degli Anelli. Una vagonata di riflessioni nate da un amore che dura da quasi due decadi verso questi film, e da quello eterno che ho verso il cinema praticamente da sempre.

Casa è alle spalle, il mondo avanti.

Quando uscì C’era una volta in America di Sergio Leone, il regista romano disse di poter chiamare il suo film anche C’era una volta un certo tipo di cinema. Il riferimento, e l’omaggio, va a quel cinema spettacolarizzante e poetico che era in grado di rendere un attore, un personaggio, un paesaggio, una musica, un vero e proprio mito con una sola inquadratura. Personalmente credo che proprio Leone sia il miglior regista di sempre da questo punto di vista, basti pensare a quanto iconico sia divenuto il personaggio dell’Uomo senza Nome dopo il clamoroso successo di Per un pugno di dollari (con tutti i dovuti meriti anche all’eterno maestro Kurosawa), e di certo non stupisce che il regista trasteverino abbia lavorato con registi quali William Wyler (padre del Ben-Hur del 1960), che di certo sapeva come rendere una storia epica e mitizzante; e non è nemmeno un caso che Leone abbia ispirato a sua volta Quentin Tarantino, che al momento è uno dei pochi registi che crede ancora nello stesso tipo di cinema nel quale credeva Leone. Basti pensare a tutto ciò che creò per The Hateful Eight (il suo film migliore, a parer mio) con proiezioni speciali che ricreavano pedissequamente i grandi eventi cinematografici degli anni ’60, come film quali il già citato Ben-Hur, Spartacus o anche 2001: Odissea nello Spazio (due film diretti da un regista che di certo sapeva cosa significa rendere il cinema spettacolo e mito).

Un tipo di cinema che da quarant’anni è una specie in via d’estinzione a causa dell’avvento della televisione nelle case di pressocché tutti, e dopo di essa le videocassette, e dopo di esse i DVD, e ancora dopo di questi internet con lo streaming illegale ed ora anche quello legale.

Per la major spendere milioni di dollari e una forza lavoro monumentale per un film è divenuto sempre meno conveniente, soprattutto dopo il clamoroso caso dei Cancelli del cielo: film diretto da Michael Cimino, del 1980, con una gigantesca produzione alle spalle ma che floppò clamorosamente al botteghino tanto da far fallire la storica United Artists e segnare la fine della Nuova Hollywood.

Dall’80 ad oggi pochi sono quei film che hanno saputo riportare nelle sale quelle storie degne di esser considerate dei miti: Blade Runner di Ridley Scott, L’Impero colpisce ancora di Irvin Keshner (ma già qui è un discorso a parte), il già citato C’era una volta in America del mitico Leone, Aliens di James Cameron, Mad Max: Fury Road di George Miller, e proprio la trilogia del Signore degli Anelli di Peter Jackson.

In effetti mi verrebbe da definire la trilogia ambientata nella Terra di Mezzo come un vero e proprio miracolo: uno delle ultime colossali produzioni che vuole (e riesce) prendere lo spettatore e trascinarlo all’interno di un mondo fantastico e inesistente, ma convincendolo che sia reale grazie ad una grandezza, ad una ricchezza, nella costruzione dell’inquadratura, nella narrazione in sé, nei personaggi e anche nella durata stessa della storia, degna di capolavori come Il Padrino. Lo spettatore si ritrova a vivere e ad affrontare una storia dall’epica degna dei grandi racconti che accompagnano l’umanità da sempre come l’Odissea. Quell’epica che ti fa percepire ogni momento di difficoltà, di tensione, di carica, di vittoria e di sconfitta esattamente come i personaggi protagonisti della storia.

Tutte sensazioni che Il Signore degli Anelli riesce a comunicare anche tenendo conto della trilogia come se fosse un film unico.

Chiaro: sono tre film distinti ognuno con un proprio svolgimento in tre atti, prologo ed epilogo. Teniamo, però, sempre in considerazione del fatto che parliamo di prodotti girati back-to-back con lo stesso team creativo che, come in una sorta di trance cinematografica, ha lavorato per sei anni (dal ’97 al 2003) senza sosta per regalare al mondo un’opera epica il cui pathos non sarebbe potuto esistere se questo team creativo non avesse dato anima e corpo, sangue e sudore, per questo progetto. Esattamente come facevano i grandi registi per quei colossal di cui abbiamo parlato prima (basti pensare che, molto probabilmente, fu la stressantissima produzione di C’era una volta in America a peggiorare le condizioni di salute di Sergio Leone fino alla sua morte cinque anni dopo l’uscita del film, all’età sessant’anni).

Detto ciò, credo proprio che i momenti chiave, di tutta la trilogia, che fanno capire ciò, siano due, ed entrambi presi dal Ritorno del Re.

Il primo, sarò banale, è il discorso di Théoden ai Rohirrim e la conseguente carica verso i Campi Pelennor. Una sequenza dal pathos infinito, immortale, dove vediamo un re in cerca di redenzione che chiede al suo popolo di seguirlo verso l’unico destino di cui lui è degno: la rovina e la fine del mondo. Quella sequenza funziona non solo per come chiude l’arco narrativo di uno dei personaggi migliori della trilogia (personalmente il mio preferito) ma proprio perché racchiude esattamente tutto quello che Il Signore degli Anelli prometteva di essere sin dal prologo del primo film: uno spettacolo cinematografico unico ed emotivamente coinvolgente come un tornado.

Il suono del corno che irrompe nel cielo nel momento più buio della battaglia di Minas Tirith, i nemici che si domandano sorpresi da dove venga e cosa lo produca, e infine una schiera di cavalieri pronti per la battaglia, nonostante la drastica inferiorità numerica, che sbuca da dietro una collina. Subito dopo di loro, ecco in prima linea il loro Re che li incita con uno dei discorsi più potenti della storia del cinema, reso soprattutto nell’edizione italiana da uno Stefano De Sando che squarcia l’inquadratura con una voce potente quanto un tuono. Nulla da togliere a Bernard Hill, ma a livello vocale l’attore nostrano rende perfettamente l’epicità e il dramma che deve trasmettere il momento.

La ciliegina sulla torta? Howard Shore che carica il commento musicale fino ad un’esplosione dove è l’elegante e regale tema di Rohan a condurre la carica, come se la voce di Théoden non abbia finito il suo discorso ai soldati ma si fosse semplicemente trasformata in musica.

Il secondo è la distruzione dell’Anello e la caduta della torre di Barad-dûr. Quel momento è semplicemente magico.

Dopo aver seguito questi personaggi per tre film, ognuno della durata di tre ore (anche più se parliamo delle versioni estese), ognuno dei quali ci ha mostrato tantissimi momenti di estrema difficoltà fino all’estrema battaglia di fronte al Morannon, il Nero Cancello. Come se non bastasse abbiamo Frodo alle prese con Gollum (ancora fottutamente vivo) e la tremenda influenza che l’Unico ha sul povero hobbit che gli impedisce di portare a termine l’impresa. Alla fine, però, quasi per caso, l’Anello cade nelle viscere del Monte Fato e nell’esatto momento in cui ciò accade, un momento prima di vederne effettivamente le conseguenze, nella mia testa frullò questa domanda: ‘E adesso?’.

Abbiamo passato ore e ore a seguire questi personaggi che avevano una missione senza però pensare se ce potessero veramente farcela, né tantomeno chiedersi cosa sarebbe successo dopo. Pertanto, quando ho visto l’Anello sciogliersi e Barad-dûr crollare, con l’esplosione dell’Occhio sul finale, ero commosso, sorpreso e sollevato esattamente quanto lo sono Gandalf, Aragorn e gli altri membri della Compagnia in quella scena.

Ovviamente, Howard Shore non si regola nemmeno in questo caso. Soprattutto con i cori. Quei cazzo di cori fortissimi.

Potrei andare avanti per anni col parlare dei motivi per cui Il Signore degli Anelli è per me uno dei tesori più preziosi del cinema moderno e contemporaneo (se non di tutta la storia del cinema), ma credo proprio che tutti i motivi riporterebbero al concetto che si tratta del miglior tipo cinema: quello del mito.

Come diceva Sergio Leone:

Il cinema deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito.

Quel tipo di cinema è sempre più raro, ma anche quando lo rivediamo sul grande schermo raramente raggiunge quelle vette toccate dal lavoro di Jackson, Kubrick, Coppola, Wyler e compagnia bella. Vette toccate grazie ad una maestria del regista neozelandese che ha saputo usare il linguaggio cinematografico esattamente come solo i grandi maestri della Settima Arte sono, e sono stati, in grado di fare.

Come non ricordare la scena a Colle Vento girata e montata con la stessa cura dei dettagli che poteva avere Leone con i suoi western. O come non citare la scena di “attivazione” di Minas Morgul, nel terzo film, dove lo stridulo tema di Mordor sembra esser quasi vomitato come un urlo straziato dal gargoyle all’entrata, trasmettendo una sensazione di terrore degna del miglior horror. O come non emozionarsi quando Théoden, appena liberato dall’incantesimo di Saruman, riconosce la propria forza impugnando l’elsa della sua spada? Con la camera da presa che riprende da vicinissimo, e lentamente, la mano che accarezza il manico per poi estrarre la spada, mentre un meraviglioso violino accompagna il tutto in perfetta armonia ed elevando il gesto a quello degno di un vero Re.

Il fatto che, dopo vent’anni dalla loro prima uscita al cinema, questi film siano tornati in cima nella classifica del botteghino dimostra quanto non siano invecchiati e il valore artistico di queste opere.

Ma se anche vi siete solo emozionati nel leggere quanto scritto in quest’articolone, non solo è una piccola vittoria per me, ma un’altra grandiosa vittoria per questa trilogia che ci ricorda quanto possa essere grandiosa la Settima Arte.

Andrea D'Eredità

Andrea D'Eredità

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