Malignant: James Wan in perfetto equilibrio tra vecchio e nuovo [RECENSIONE]

Ho sempre considerato il genere horror come uno dei più stimolanti e importanti della storia del cinema. Questo perché la paura, così come la risata, è qualcosa di veramente difficile da suscitare all’interno dello spettatore, e dunque un regista deve dare il meglio di sé per ottenere questo risultato. Ma, esattamente come la commedia, nel panorama generalista del cinema horror abbiamo tanta monnezza.

A difendere questo genere, ad oggi, dal pattume abbiamo un regista malese di nome James Wan, un vero e proprio custode dell’orrore contemporaneo mainstream.

Un regista che con la sua opera prima stravolge il panorama dell’horror con un film dal sapore fortemente post-moderno quale è Saw, e continua, con un successo dopo l’altro, fino al climax della sua carriera: The Conjuring, film del 2013 che riesce a terrorizzare tutto il mondo nonostante la materia di base sia nota e stranota. Ma, con una regia che sembra uscita direttamente dalla Nuova Hollywood, la partita è vinta.

Sono un po’ di anni che Wan non si cimenta in un horror originale di suo pugno al 100%. Dopo The Conjuring ha diretto solo sequel (Insidious 2 e The Conjuring – Il Caso Enfield) e qualche film su commissione (i tremendi Fast & Furious 7 e Aquaman, errori che gli possiamo perdonare).

Ora, però, il custode è tornato.

Malignant segna il ritorno di Wan all’horror con un soggetto originale scritto a quattro mani con Akela Cooper, la quale curerà di suo pugno tutta la sceneggiatura, e ovviamente con regia firmata dal regista malese.

Quello che avviene nel primo atto del film è una presa per il culo verso lo spettatore in pieno stile Casa delle bambole di Pascal Laugier; dopo Insidious Wan si è sempre cimentato in storie horror con al centro fantasmi tormentati che vogliono torturare la famiglia di turno. Questo è quello che ci viene proposto nella prima mezzora, circa, di film, facendoci anche un po’ annoiare visto che ormai conosciamo molto bene le formule registiche adottate da Wan per questo tipo di storie.

Questo finché poi non vi è un ribaltamento della situazione.

Con un eccellente colpo di mano, Wan ci trasporta dalla “banale monotonia” dell’horror soprannaturale all’interno di una dimensione degna di un giallo in pieno stile Dario Argento / Mario Bava: un misterioso legame tra la protagonista e l’assassino, che si aggira con giubbotto e guanti neri (un classico intramontabile), e una quantità di sangue e violenza che di certo non guastano. Soprattutto con uno come James Wan dietro la macchina da presa (va detto che a livello tecnico Wan raggiunge vette sempre più alte di film in film).

Un’ispirazione, quella per l’horror italiano degli anni ’60 / ’70, che si riflette anche nella fotografia che abbraccia colori forti nei momenti in cui l’orrore viene a galla, per conferire alla pellicola quel tono gotico d’altri tempi. Stesso discorso per le scenografie, come quella dell’ospedale che si vede a inizio film, più simile ad una cattedrale che ad un istituto.

Ci troviamo, dunque, di fronte ad un Wan che cerca qualcosa di nuovo (come ha sempre fatto), così da regalare allo spettatore qualcosa che lo possa stupire. Ma nella sua ricerca della novità, in quanto autore fatto e finito, ritroviamo anche quelli che sono i suoi marchi di fabbrica. Non mancano meravigliosi long take e piani sequenza, così come ritornano anche titoli di testa dal sapore rock / punk, caratterizzati dalla presenza di immagini sporche e grezze, dal sapore molto primi anni 2000. Per non parlare della colonna sonora, che include una tanto inquietante quanto meravigliosa cover di Where is my mind? Dei Pixies.

Tutti elementi che mancavano da un po’ nei suoi film, ma che sono tornati in grande stile ricordando le atmosfere dei suoi primi lavori quali Saw e Dead Silence.

Quello che mi ha colpito più del film, a livello di scrittura e regia, è la banalità dei colpi di scena. O meglio, la consapevolezza che gli autori hanno della banalità di questi risvolti e di come l’abbiano sfruttata al meglio per scatenare stupore e orrore nello spettatore.

Cosa accade di preciso? Nel momento in cui lo spettatore capisce cosa sta per, banalmente, accadere ecco che quella cosa accade subito dopo, e colpisce forte comunque grazie alla mano di Wan alla regia. Questo perché Malignant non è un film che vuole tanto stupire per la storia, per gli eventi in sé, ma per il punto di vista che l’autore verso la vicenda. E quindi eccoci con tutto quello che stavamo aspettando sin dai titoli di testa: orrore, stupore, inganno.

Insomma, tutto quello che vorremmo da un film di James Wan: un film horror in perfetto equilibrio tra nuovo e vecchio, che stupisce nonostante la prevedibilità di alcune situazioni grazie ad un regista che dimostra, ancora una volta, di conoscere bene il genere.

Ma perché chiamare James Wan custode dell’horror contemporaneo? Registi come Robert Eggers, Ari Aster e Jordan Peele hanno sfornato horror ben più interessanti, ma loro sono più di semplici custodi; puntano ad una concezione ben più elevata di horror, a differenza di Wan. Non che questo sia un male, sono semplicemente punti di vista diversi che devono coesistere. Perché il pubblico generalista difficilmente potrà apprezzare un’opera come The Lighthouse o Midsommar, al contrario di un Malignant o di un The Conjuring.

Dunque, se non è James Wan a custodire questo tipo di cinema horror, allora chi?

Andrea D'Eredità

Andrea D'Eredità

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