Nomadland: un film per sentirsi piccoli [RECENSIONE]
Sono un po’ di anni che in giro si sente nominare spesso il nome di questa regista: Chloé Zhao. Sentivo che era stata particolarmente acclamata per il suo The Rider del 2017, ma ammetto di averla approcciata (un po’ come tutti, credo) solamente quest’anno con l’uscita del suo vittorioso Nomadland.
Il film mi interessava per diverse ragioni, ma era soprattutto la voglia di conoscere questa regista a spingermi ad andare a vederlo. Parliamo di un film incentrato su un racconto molto americano, e inoltre la Zhao esordirà nel Marvel Cinematic Universe a fine 2021; abbiamo quindi di un’artista orientale ma tremendamente affascinata dalla cultura e dai miti occidentali. Scavando un po’ nella sua biografia si scopre che sin da giovane è rimasta affascinata dalla cultura occidentale, ed infatti quello che lo spettatore si trova di fronte guardando Nomadland è uno sguardo unico verso un mito, un archetipo narrativo, che conosciamo molto bene.
Uno dei massimi protagonisti della narrativa è smpre stato l’antieroe viaggiatore. Figura che nel corso del XX secolo ha avuto delle eccellenti rappresentazioni: Ethan Edwards da Sentieri Selvaggi di John Ford, l’Uomo senza nome della Trilogia del dollaro del già citato Leone, oppure, andando oltre il cinema (ma non troppo), su carta abbiamo Wolverine della Marvel, e ad oggi uno dei migliori esempi contemporanei è sicuramente il protagonista dell’acclamata serie The Mandalorian. Tutti personaggi con dentro un qualcosa di rotto, chi per un motivo chi per un altro, e per questo costretti a vagare senza una meta precisa, senza uno scopo, e quando cercano di integrarsi da qualche parte ecco che accade qualcosa di terribile. Come se il loro dolore interno si manifesti nel mondo esterno.
Nomadland riprende questo identico archetipo di personaggio e ce lo racconta sotto un’ottica nuova.
Fern, la nostra protagonista, vaga per il deserto e gli infiniti paesaggi degli Stati Uniti a bordo del suo van senza una meta, in fuga da un dolore troppo grande da affrontare. Fern è una figura lacerata nell’anima, intrappolata nei ricordi, in un “qualcosa che sa di morte”. Una figura che non riesce a trovare un posto dove vivere in mezzo alla natura, ma non può nemmeno tornare nella società civilizzata che lei stessa contribuisce a sostenere. Perché nonostante sia isolata dal mondo civile la vediamo anche lavorare per un colosso come Amazon, ad oggi uno dei massimi simboli della civiltà occidentale e non solo.
Le cose inizieranno a cambiare con la scoperta di una comunità di nomadi esattamente come lei.
Quello che anche lo spettatore scopre è che gli Stati Uniti sono una terra di nomadi. Un’enorme landa desolata dove centinaia, se non migliaia, di persone vagano alla ricerca di un qualcosa che forse non troveranno mai (il tanto desiderato “sogno americano”?), ma quel che è certo è che possono contare sul supporto di questa comunità.
Abbiamo quindi l’immensità degli spazi americani, la figura lacerata nomade, e ora anche la comunità. Si inizia a delineare in modo molto più nitido un qualcosa che ricorda molto i film di John Ford e il mito del Far West come ce lo ha insegnato il cinema hollywoodiano classico anni ’40 / ’50 e poi anche il filone degli spaghetti western. Un mito che nasce da un dramma emotivo molto potente. Un dramma che, nel caso della nostra Fern, è causato dal lutto. Una fiamma che arde ma che viene aizzata da un società, quella statunitense, che sembra non avere pietà dei suoi abitanti.
L’archetipo alla base del personaggio di Fern è globale, ma è grazie al mito americano della frontiera se oggi è ancora forte come non mai. Ed è qui che entra in gioco l’occhio di una regista che ama così tanto questa mitologia.
Chloé Zhao gioca duro. Racconta una storia fortemente umana e intimista, ma resa ancor più efficace da una regia caratterizzata da un taglio pseudodocumentaristico: la sceneggiatura presenta una struttura lontana da quella classica che siamo soliti vedere al cinema, valorizzata anche da un montaggio perfettamente dosato per la storia che si deve raccontare.
La fotografia punta tantissimo sulle luci naturali in pieno stile Lubezki conferendo ulteriore autenticità all’immagine e alla narrazione con colori avvolgenti e una profondità di campo che rispettosamente valorizza le scenografie, portando così lo spettatore a sentirsi un vero e proprio membro di questa famiglia di nomadi. Ed infine, la colonna sonora colpisce molto, molto, forte. L’uso delle musiche di Ludovico Einaudi conferiscono una dimensione unica al viaggio intrapreso da noi spettatori insieme a Fern, aggiungendo quel tocco quasi onirico e leggiadro che quasi paradossalmente accentua la natura intima, drammatica e autentica dell’opera.
Il tocco finale? Il segreto dello chef? Il cast. Ogni personaggio lascia un qualcosa nello spettatore. Sono personaggi che lasciano una pietra nella nostra memoria con le loro storie, i loro dolori, le loro speranze, i loro viaggi. Una pietra che sentiamo duramente a causa della scelta della Zhao di voler prendere veri e propri nomadi per interpretare, beh, sé stessi. Un’autenticità che, però, non manca nemmeno nella perfomance di una star di Hollywood come Frances McDormand, che con la sua solita e “semplice” spontaneità ci regala un grandioso ritratto di una nuova versione dell’antieroe occidentale in fuga dal proprio dolore. Un dolore che, però, non riesce e non vuole dimenticare.
Si può dire che questa sensazione di autenticità la si sente meno ad un certo punto del film, quando ci si allontana dal mondo nomade e ci si avvicina a quello civilizzato, avvicinandoci ad un tono più “finto” e cinematografico. Ma comunque, a fine film rimane qualcosa di forte. Qualcosa che ci ricorda noi stessi, i viaggi che abbiamo vissuto e che vivremo in futuro. Perché Nomadland questo fa: ci fa ricordare chi siamo, quanto siamo piccoli, ma anche che in fondo alla strada c’è sempre speranza.