RECENSIONE – Loving Vincent

GulaczkykSentii parlare di questo progetto più o meno un annetto fa, girovagando su Facebook, e subito mi incuriosii l’idea che sta alla base del progetto. Un’idea folle, visionaria ma soprattutto originale e con del potenziale. Proprio per questo non avevo aspettative, ma moltissima curiosità per questo Loving Vincent. L’idea di voler omaggiare quello che è stato il più grande artista dell’era moderna (e uno dei più grandi della storia) realizzando un lungometraggio totalmente a mano, ogni frame è un quadro olio su tela che si rifà allo stile di Van Gogh, è puro genio. L’arte pittorica che si fonde con l’arte cinematografica per dar vita a qualcosa di mai tentato fin’ora. C’erano anche molti dubbi, dato che magari un lungometraggio realizzato con tale tecnica poteva non funzionare e anche annoiare. Ma come avrete notato, ho detto ‘c’erano’, perché uscito dalla sala ero letteralmente estasiato dal film.

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E’ davvero difficile parlare di Loving Vincent. E’ un qualcosa di totalmente diverso da quello che ho visto fin’ora al cinema e le emozioni che mi ha trasmesso sono di un tipo molto particolare, forti, ma comunque diverse da quelle che si possono provare guardando un film normale. Sicuramente questo film in live-action non avrebbe reso nemmeno la metà di come ha invece fatto Loving VincentDorota Kobiela Hugh Welchman sono i due registi che sono riusciti a dar vita a questa folle idea, riuscendoci perfettamente. Il dubbio più grande era se questo tipo di animazione, perché alla fine si tratta anche di un film animato, potesse funzionare per un lungometraggio di un’ora e mezza, ma Welchman e Kobiela hanno sfruttato questa tecnica per dar vita a delle inquadrature, dei giochi di colore e delle transizioni da una scena all’altra a dir poco sensazionali, anzi, geniali. Le pennellate libere e circolari tipiche di Van Gogh conferiscono all’immagine una sensazione di movimento continua quasi psichedelica, e proprio sfruttando questo tipo di motivo spesso si passa da una scena all’altra con l’immagine che, continuando a muoversi, ad un certo punto muta divenendo appunto la scena successiva. L’effetto ottenuto non solo rispecchia perfettamente lo stile van goghiano, ma soprattutto lo rispetta perché è questo che il film fa. Omaggia l’artista, è un omaggio elegante, delicato ma anche molto forte, drammatico e, soprattutto, di grandissima intensità e credo che per trasmettere questo tipo di sensazione l’arte di Van Gogh sia perfetta, perché i suoi quadri rappresentano la faccia bella del mondo, colorata e caratterizzata da forma bellissime, ma dietro a queste forme si può intravedere la tristezza, la solitudine, la depressione e il dolore che hanno caratterizzato tuta la vita di Van Gogh, dal primo fino all’ultimo momento. E’ qui che risiede tutta l’essenza del film: una pellicola che è in grado di emozionare esattamente come farebbe la visione di un’opera van goghiana ma senza snaturarsi e rimanere quindi sempre quello che è, ovvero un film. Inutile dire che moltissimi inquadrature dei paesaggi spesso sono citazioni, o meglio, rifacimenti delle opere più celebri di Van Gogh, come Notte stellata Campo di grano con volo di corvi, ma sono solamente due di quelli che si possono trovare, e per citarli tutti ci metterei davvero tanto. Quindi si ritorna sempre alla fusione dell’arte pittorica con l’arte cinematografica. Arte che incontra arte e dà vita a un qualcosa che forse trascende il semplice concetto di cinema e di arte visiva. Non sto elevando il film a capolavoro assoluto della storia del cinema, i capolavori sono ben altri, ma sicuramente lascerà il segno, o almeno lo spero, perché totalmente unico nel suo genere. E non parlo solamente per l’incredibile cura tecnica, ma anche per la sceneggiatura solida, scorrevole e con personaggi molto introspettivi.

La sceneggiatura del film, firmata sempre da Kobiela e Welchman, ma anche dallo scrittore polacco Jacek Dehnel, è pura poesia. I dialoghi sono molto incisivi a intensi, che danno un grandissimo spessore ai personaggi protagonisti della vicenda. Le dinamiche di ogni scena sono ben studiate e precise, anche perché bastava davvero poco per rovinare una sequenza data la tecnica utilizzata, ma la cosa che più mi ha stupito del film è la struttura e l’atmosfera della trama. La storia si svolge un anno dopo la morte di Van Gogh ed è divisa in due timeline: una vede Armand Roulin, protagonista del film e interpretato da Douglas Booth, che deve portare la lettera d’addio di Vincent Van Gogh al fratello Theo e, nel cercare il fratello, Armand scoprirà quanto fosse tormentata e complessa la vita dell’artista e dell’importanza che ha la sua arte, che all’epoca era tutt’altro che compresa. Possiamo dire che questa è la timeline principale.  Mentre l’altra timeline mostra ciò che i vari personaggi raccontano a Armand riguardo il loro rapporto con Van Gogh, quindi si tratta di flashback con protagonista proprio il pittore. Queste scene, però, non sono state realizzate con lo stile van goghiano, bensì come se fossero dei semplici schizzi a matita in bianco e nero. Come se quelle scene fossero soltanto delle bozze dei dipinti che invece caratterizzano le scene ambientate nel presente. Come se la grigia e cupa vita di Van Gogh fosse solamente uno schizzo agli occhi dello spettatore e degli abitanti della cittadina di Auvers-sur-Ois, che poi acquisisce colore e bellezza proprio dopo la sua morte. Tutta l’arte di Van Gogh per la gente quando egli era vivo non era niente, non aveva alcun significato, ma dopo la sua morte ecco che il mondo, col passare degli anni, inizia ad amarlo e consacrarlo come uno dei più grandi artisti della storia e tutto ciò è racchiuso perfettamente negli ultimi atti del film, dove si raggiungono livelli di pathos veramente tanto, ma tanto, alti. Complice anche la straordinaria, drammatica, dolce e anch’essa potente, colonna sonora firmata da un maestro della musica cinematografica, ovvero Clint Mansell. La colonna sonora è un perfetto commento a tutto quello che accade sullo schermo e sono sicuro che se ci fosse stato qualcun’altro compositore non sarebbe stata la stessa cosa. Mansell ha lavorato tantissimo con Darren Aronofsky (trovate la nostra recensione di Madre! a questo link) e diciamo che ha un’enorme esperienza quando si tratta di trasporre con la musica la mente umana, le sue ossessioni, i suoi tormenti e le sue paure. Direi che per un film su Van Gogh Mansell è adattissimo, ma è riuscito anche a dare un tono dolce alla musica, così da rendere le giuste scene toccanti anche sotto un altro punto di vista.

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L’aspetto che più mi ha sorpreso della storia è il suo essere misteriosa, intrigante e oscura, come se fosse un vero e proprio thriller, anche se non abbiamo scene che ti fanno trattenere il fiato tipiche del genere. Diciamo che si tratta più di un giallo di stampo classico. Il film assume anche delle tinte noir, puramente estetiche, nelle scene ambientate nel passato in bianco e nero. Il contrasto tra nero e bianco è molto forte, le ombre combattono contro la luce dando vita a delle scene di straordinaria bellezza e degne proprio di un film noir molto classico. I dettagli dell’ambiente, dei personaggi, delle espressioni degli attori e delle loro movenze sono impressionanti e devo ammettere che durante il film credevo che quelle scene non fossero disegnate a mano, ma che fossero state girate come un normale film e poi rese in quel modo con un apposito programma digitale, ma sono stato subito smentito dalla più grande fonte di saggezza che esista: Wikipedia. Infatti queste scene sono state realizzate con la tecnica del rotoscope, che consiste nel prendere delle scene girate con attori veri e propri e poi usate come riferimento dagli artisti per ricrearle a mano. Se non fosse stato per queste tecnica sarebbe stato praticamente inutile l’impiego degli attori, che invece si sarebbero limitati al doppiaggio dei personaggi. Lo stesso identico discorso vale anche per le scene della timeline centrale con protagonista Armand. Ammetto, però, che personalmente ho apprezzato di più le scene in bianco e nero. Questo molto probabilmente perché in quelle sequenze l’aspetto cinematografico della pellicola prevale su quello artistico, e succede il contrario nelle scene con Armand, pertanto io, essendo un appassionato più dell’arte cinematografica, senza togliere assolutamente nulla a quella pittorica, ho apprezzato di più quelle scene, caratterizzate da una fotografia (si può comunque parlare di fotografia, ad opera anche di ben due direttori, ovvero Tristan Oliver Lukasz Zal) più scura, appunto noir, e ci sono delle scene in cui si può riscontrare un’anatomia simile ai quadri di Caravaggio, perfetti per rappresentare momenti di una certa pesantezza morale.

Le opere di Vincent Van Gogh non hanno solamente ispirato il film da un puro punto di vista visivo, ma anche per quanto riguarda i vari personaggi. Quelli principali sono veramente esistiti, come il già citato più volte Armand o il Dr. Gachet, e per il loro aspetto si sono ispirati proprio ai ritratti che Van Gogh fece di loro. Mentre gli altri personaggi secondari, come il dottore che ha visitato Van Gogh insieme a Gauchet, sono tratti da altri quadri con soggetti casuali. Come per esempio il Vecchio che soffre Le Mousmé seduta. Anche in questo caso potrei passare tantissimo tempo nel citare i svariati quadri che hanno usato per dar vita ai numerosi personaggi secondari, tutti con un ruolo ben definito all’interno della trama e con una caratterizzazione molto dettagliata.
In primis abbiamo il protagonista Armand Roulin, che rappresenta lo spettatore vero e proprio e il pensiero generale che la gente aveva di Van Gogh. Il personaggio, interpretato molto bene dall’attore Douglas Booth, doppiato perfettamente (come al solito d’altronde) dal nostro caro doppiatore Flavio Aquilone. Armand nella storia risulta quasi essere un detective, ancora una volta, dai caratteri tipici di un personaggio noir: è scontroso, testardo, iracondo, beve e non poco, e gira sempre con il cappello in testa oscurandogli spesso il viso. Un personaggio che inizialmente non possiamo farcelo stare simpatico, ma più va avanti la storia è più capisce chi fosse Van Gogh, arrivando a comprendere il genio che quest’uomo aveva dentro di sé e che la gente di quegli anni non è riuscita a vedere. Armand è la perfetta rappresentazione generale dell’opinione pubblica che aveva il pittore e della sua evoluzione negli anni, che è cambiata quando la gente ha iniziato a interessarsi alla sua morte, dopo essere stata del tutto incurante della sua vita.

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Altro personaggio molto interessante per come è stato analizzato è il Dr. Gauchet, il dottore militare che aiutava Van Gogh non solo per vari problemi di salute, ma anche per i vari problemi comportamentali che caratterizzavano il pittore, come il suo difficile relazionarsi con gli altri. Il Dr. Gauchet era più un amico per Van Gogh che un semplice dottore, e questo viene fuori soprattutto nel momento del vero bisogno, ovvero quando Van Gogh sta per lasciare questo mondo dopo essersi sparato. Per tutto il film non vediamo il dottore se non nei flashback e il suo carattere e rapporto con Van Gogh ci viene dipinto in diverse salse dai vari personaggi con cui parla Armand, e per tutto il film non siamo sicuri di chi sia stato veramente il Dr. Guachet per Van Gogh. Ho apprezzato moltissimo la perfomance dell’attore interprete del personaggio, che non è niente popo di meno che Jerome Flynn. E voi direte ‘Chi è ‘sto qua?’. Beh, se vi dico Ser Bronn delle Acque Nere di Game of Thrones? Aaah, ora ci siamo. Esatto, Flynn è celebre per il suo ruolo di Ser Bronn nella celebre serie targata HBO, senza però dimenticare la sua perfomance e il suo personaggio nella 3×03 di Black Mirror. Innanzitutto c’è un’inquietante somiglianza tra Flynn e l’aspetto che aveva il vero Dr. Gachet, di cui si hanno qualche foto oltre ai ritratti di Van Gogh, ma a livelli recitativo l’attore è stato fenomenale. La sua bravura viene fuori soprattutto nei flashback, più cinematografiche come abbiamo detto prima, data la natura più drammatica e intensa dei momenti che vengono portati sul grande schermo. Il doppiaggio è anch’esso di buonissima qualità, e questa volta abbiamo la voce di Gianni Giuliano, doppiatore molto bravo che è riuscito perfettamente a rendere giustizia alla perfomance dell’attore.

Perfetto è stato il casting di un’attrice divenuta molto famose negli ultimi anni per film come Grand Budapest Hotel Brooklyn, ovvero Saoirse Ronan. La Ronan è perfetta per il ruolo assegnatole, ovvero quello di Marguerite Gauchet, figlia del dottore, perché il personaggio doveva dare l’impressione di essere una donna molto bella ma anche molto fragile, una sorta di bambola di ceramica, e la Ronan ha il viso e il portamento perfetto per rendere l’idea del personaggio. Riesce anche a dimostrare però che questa fragile bellezza è solamente il modo in cui appare il personaggio, la quale in diverse scene appare molto cazzuta tenendo testa all’arrogante Armand e facendolo tacere diverse volte. Anche in questo caso il suo rapporto con Van Gogh è tutto da scoprire, non sei mai certo di chi sia lei veramente finché non arrivi alla fine del film. Il tutto reso ancor più complicato dalla fastidiosa domestica interpretata dalla grande Helen McCrory.

Infine abbiamo lui, Vincent Van Gogh, interpretato magistralmente dallo sconosciuto ma a dir poco talentuoso e espressivo Robert Gulaczkyk. Van Gogh è un personaggio a dir poco sfaccettato e estremamente approfondito nonostante sia limitato alle scene flashback. Gulaczkyk, oltre ad essere perfetto come Van Gogh già solo da un puro punto di vista fisico e estetico, si presenta al grande pubblico con un’interpretazione magistrale, ricca di pathos e grande espressività. L’attore è riuscito a rendere perfettamente lo stato d’animo tormentato del personaggio, che come ben sappiamo non ha avuto una vita facile, anzi, grazie a questo sguardo ricco d’odio, di tristezza e di dolore, e dal viso contratto e appesantito dalla vita. La sua perfomance ha acquisito un notevole valore soprattutto grazie al tipo di tecnica usata per le sue scene. La matita nera in contrasto col bianco del foglio rende ancor più scuro e appesantito il viso del personaggio.
Nonostante il personaggio sia già morto a inizio film riusciamo a capire benissimo quali fossero i rapporti che aveva col fratello, con il Dr. Gauchet, con la dolce e bella Marguerite, anche quello che aveva instaurato con la città in cui viveva e la gente del posto, e non solo, ma mi fermo qui per evitare di fare spoiler.

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Detto ciò, Loving Vincent è una piccola perla che spero rimarrà nella mente degli spettatori per i prossimi anni, perché dubito che qualcosa di così unico possa venir realizzato una seconda volta. Kobiela e Welchman hanno portato sul grande schermo l’unione di due arti diverse per riuscire a trasmettere lo spettatore un pathos che soltanto queste due arti messe insieme possono comunicare. Non parliamo di un capolavoro massimo della cinematografia, ma sicuramente ha un grandissimo valore artistico che spero venga riconosciuto più avanti negli anni, esattamente com’è successo con Van Gogh e la sua arte. E ovviamente speriamo di vedere da ora in poi più spesso Robert Gulaczkyk, perché di attori come lui ne abbiamo un estremo bisogno.
Per chi non lo avesse ancora visto avrà un’altra occasione per godersi questa esperienza. Il film è stato mandato nelle sale d’Italia solamente per tre giorni, dal 16 al 18 ottobre (io sono riuscito a  vederlo per il rotto della cuffia), ma la pellicola ha ottenuto un tale numero di spettatori che nessun si sarebbe mai aspettato tanto da beccarsi una replica il 20 novembre. Quindi segnato il giorno sul calendario perché anche in questo caso ci ritroviamo d’innanzi a un film che va visto in sala assolutamente.

Se invece avete visto il film fateci sapere la vostra con un commento qui sotto!


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Andrea D'Eredità

Andrea D'Eredità

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