RECENSIONE – Westworld (3° stagione)
Il parco è morto, benvenuti nel futuro.
Il finale della seconda stagione di Westworld aveva lasciato tutti con un enorme sopracciglio inarcato e con la domanda fissa in testa: ‘Quindi la serie sarà un qualcosa di completamente diverso?’. Domanda posta con non poca amarezza, viste le meravigliose atmosfere western e come si andavano a fondere perfettamente con degli ambienti più sci-fi nel senso stretto, ma anche con tantissima curiosità.
Con le prime due stagioni la serie creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy si era confermata come uno dei prodotti televisivi migliori attualmente in circolazione, insieme a Better Call Saul e la neonata The Mandalorian (della quale probabilmente parleremo a breve). Una serie che poneva dei discorsi esistenziali assai cari al genere della fantascienza, sdoganati completamente dal capolavoro Blade Runner di Ridley Scott, attraverso personaggi già iconici nel panorama del piccolo schermo.
La terza stagione di Westworld non si discosta dall’essere un prodotto che pone le domande e i dubbi che ci si aspetta dalla serie HBO, ma risulta essere anche un prodotto che fallisce nella realizzazione di alcune idee veramente tanto interessanti per dedicarsi in modo decisamente forzato al mantenimento di alcune caratteristiche narrative che, forse, potevano restare in panchina.
Quello che più ci aveva colpito di Westworld con le prime due stagioni era la tematica del controllo, del caos, di cosa voglia dire essere vivi, liberi e avere una propria identità. Con la terza stagione questi discorsi, in particolare l’ultimo con il personaggio di Charlotte Hale, vengono assolutamente mantenuti e inseriti magnificamente all’interno del mondo al di fuori del parco, che presenta non poche analogie con il nostro.
Il mondo intero è tenuto sotto controllo da un’enorme I.A.: Rehoboam. Esso sa quali sono le strade che gli esseri umani devono intraprendere per evitare che la loro follia, e la loro tossica natura, porti il mondo alla distruzione. In pratica gli esseri umani vivono all’interno di un mondo per niente diverso da quello che la Delos ha creato per far divertire i ricconi bastardi sadici come William. Quindi se il Dio all’interno di Westworld era Robert Ford, qui abbiamo una new entry veramente affascinante quale Engerraund Serac, interpretato da un subdolo, astuto e volpesco Vincent Cassel. Yep, a questo giro gli addetti ai casting hanno puntato su nomi di un certo livello.
L’unica differenza tra Ford e Serac è che quest’ultimo agisce per paura di vedere il mondo distrutto esattamente come la sua città natale. Una paura che porta il suo piano ad essere fragile e destinato a crollare da un momento all’altro, in quanto il suo mondo ideale, rappresentato da un bianco sole “puro e vergine”, non può contenere il lato oscuro degli esseri umani che pian piano uscirà allo scoperto macchiando quel pallido sole come un’indelebile macchia di inchiostro. Perché quella tossicità, quella follia, di cui abbiamo parlato prima è necessaria per poter mantenere l’equilibrio.
Potente la luce, potente l’oscurità
Il tentativo di Serac di limitare l’uomo, di renderlo un’arancia meccanica, porta il mondo a smarrire il libero arbitrio, che ricopre il tema principale della stagione fino al finale estremamente anarchico. A quel punto ciò che è considerato vivo diviene anch’esso meccanico comandato, tra l’altro, da un’altra macchina ancor più potente quale è Rehoboam. A questo punto nulla è la differenza tra Caleb e Dolores, se non che quest’ultima è praticamente immortale. Quindi che i nostri ancori “hosts” siano il passo sucessivo dell’evoluzione umana? Una domanda alla quale è ancora presto per poter rispondere, e sulla quale magari ci concentreremo nella quarta stagione.
Quindi sì, l’uomo è in una condizione talmente misera che non è nemmeno conscio di esserci dentro. E nel vedere questa specie inferiore, intrappolata in una caverna di Platone digitale che molto ha in comune con il ben noto Matrix, anche un essere distrutto dalla cattiveria dell’uomo come Dolores riesce a provare una sentimento come la pietà.
Dolores è buona? Dolores è cattiva? Beh, la risposta migliore è nessuna delle due e tutt’e due contemporaneamente, ed è ciò che rende il suo personaggio incredibilmente umano. Non esistono buoni e cattivi se non soltanto nei film, ed è proprio per questo che la terza stagione di Westworld pone al centro solamente quei personaggi che non sappiamo se appoggiare o meno nelle loro azioni. Certo, Dolores non sarà il più sfaccettato dei personaggi, e quando cercano di renderlo tale si casca in una scrittura dell’evoluzione un po’ deboluccia e pigra, ma il grande lavoro attoriale di Evan Rachel Wood riesce nel rendere questo personaggio incredibilmente grintoso, carismatico e letalmente sensuale.
Sceneggiatura estremamente pigra anche per la gestione di personaggi come Bernard, il cui ruolo marginale è comprensibile, ma mal gestito. William, l’ex Uomo in Nero, continua ad ammaliare con la sua follia ed eleganza, soprattutto grazie ad un Ed Harris sempre in grande forma, ma che risulta essere un po’ troppo didascalico, se calcoliamo quanto oscuro e malato è il personaggio. Inutilmente artificiosa è la scrittura del personaggio della new entry più importante: Caleb.
Il personaggio di Caleb è incredibilmente affascinante. Lo spettatore empatizza molto con lui e Aaron Paul non si smentisce in quanto attore, ma seppur interessante la sua storia viene narrata attraverso un racconto troppo, troppo, contorto. O meglio: inutilmente contorto. È vero che Westworld è una serie che ha sempre puntato sul mind fuck narrativo; nella prima stagione vi era un colpo di scena geniale, nella seconda vi era un intreccio elegantissimo reso tale anche da un ottimo montaggio e consapevolezza di quello che si stava facendo. Stavolta, l’intreccio stucca e risulta essere il risultato di una volontà da parte del duo Nolan / Joy di voler rendere la serie complicata “perché sì”. Perché così deve essere Westworld. Ma in realtà il risultato è ben altro.
Ma se da una parte abbiamo una sceneggiatura generalmente ben scritta, con diverse lacune, ben solido è invece tutto il comparto tecnico. Westworld è sempre stata una serie con un impianto tecnico notevole, che sperimenta di stagione in stagione e questa terza non è assolutamente un’eccezione, anzi. L’essersi traslocati dal parco nel mondo “reale” si passa a delle scenografie molto più fantascientifiche, le musiche, sempre meravigliose, di Ramin Djawadi abbandonano le note western classiche per avvicinarsi completamente ad una sonorità retrowave alla Vangelis. La fotografia continua a giocare con i foramti, dipinge con colori freddi e bluastri un mondo in procinto di divenire cyberpunk puro, portando quindi quest’ultimo genere di ambientazione e fantascienza a fondersi con dei toni molto più realistici.
Un modo di fare che a Nolan, e il fratello maggiore, è sempre piaciuto.
Westworld continuerà la sua storia per altre due stagioni (in teoria) ma sembra che la serie stia pian piano scivolando verso un qualcosa che non è in grado di controllare appieno. Perché per quanto questa terza stagione mi sia piaciuta, abbia mantenuto in pieno lo spirito della serie e dei personaggi, includendo anche i nuovi, è scontato dire che si tratta della più debole di quelle prodotto fino ad ora.
Detto ciò, l’asticella della qualità è ancora alta, sicuramente ben sopra la media dei prodotti per piccolo schermo che vengono sfornati quotidianamente, e va anche detto che la serie di Nolan – Joy non sta assolutamente riscuotendo il successo meritato. Quindi attendiamo con grande ansia il seguito di questa serie, nella speranza che chi di dovere si ricordi non tanto cosa Westworld vuole raccontare, ma come lo vuole raccontare.